Chi
segue i Porcupine Tree, sa perfettamente che ogni anno la band inglese
concede al pubblico italiano almeno due possibilità di assistere
ad un loro concerto dal vivo. In Italia, Steven Wilson è ormai
diventato un'icona del rock progressivo moderno, capace di attirare un
pubblico molto più vasto della sconsolante media registrata nei
principali (e sempre troppo pochi) eventi progressivi organizzati nella
nostra penisola.
La serata del 25 luglio a Collegno, presso l'area dell'ex ospedale psichiatrico,
non ha fatto eccezione ed ha visto radunarsi un migliaio di persone entusiaste,
considerando che i PT avevano suonato soltanto tre mesi prima a Milano
subito dopo l'uscita dell'ultimo album "Deadwing".
Con mezz'ora di ritardo, alle 22 si parte con l'impeto di "Deadwing",
che riassume in modo esauriente l'attuale approccio musicale della band
inglese, ossia un mix ottimamente bilanciato del sempre più crescente
desiderio di graffiare e di appesantire il suono ed il giusto freno costituito
dalla loro tradizionale liquidità e psichedelia.
Steven Wilson ha la stessa presenza scenica di un ragazzino, esile e con
tanta voglia di dimenarsi; in realtà è un artista completo
e maturo, dotato di una personalità disturbata quanto basta per
dare profondità e significato ai testi delle sue canzoni. Soprattutto
non è tipo che dorme sugli allori di una manciata abbondante di
album già realizzati e cerca strade nuove, anche se non sempre
del tutto inesplorate.
Attorno a lui non c'è il deserto ma quattro musicisti preparatissimi,
soprattutto la base ritmica costituita da due autentici mostri di bravura
come Colin Edwin al basso e Gavin Harrison alle percussioni, senza i quali
la musica dei PT sarebbe senza dubbio molto più povera di contenuti
e di fascino. Da non sottovalutare la presenza di John Wesley alla seconda
chitarra e cori.
Chi scrive è alla sua prima esperienza di fronte ai PT su un palco
e avrebbe quindi gradito una scaletta un po' più diversificata
che avesse abbracciato in maniera più omogenea almeno i loro ultimi
quattro lavori. Invece "In Absentia" e "Deadwing"
hanno egoisticamente tenuto banco: tratte dal lavoro più recente,
oltre all'omonima traccia, sono state eseguite "Lazarus", "Halo",
la trascinante "Arriving Somewhere But Not Here" (con un pubblico
che in realtà si è fatto trascinare poco) e la divina "Start
Of Something Beautiful". Dal claustrofobico "In Absentia"
ho apprezzato molto le ottime "Blackest Eyes", "The Sound
Of Muzak" ed una versione semi acustica di "Trains", questa
come primo dei due bis finali.
Tutti ottimi brani, sia chiaro, ed ampiamente sufficienti per tornare
a casa contenti e soddisfatti, ma avrei preferito qualche ripescaggo in
più dal loro passato, più delle sole "Shesmovedon"
(questa, a mio parere, la loro canzone dal potenziale espressivo commerciale
più elevato) e "Fadeaway".
Due ore esatte di musica con la "m" maiuscola, una dimostrazione
di forza, magia e coinvolgimento ad opera di una brillante realtà
del progressive moderno.